Il melanoma, il più pericoloso tra i tumori della pelle, colpisce fasce sempre più giovani della popolazione. Nel 2019, secondo le ultime stime dell’associazione italiana di Oncologia medica, le nuove diagnosi sono circa 12.400, di cui 6.700 tra gli uomini e 5.700 tra le donne (4% di tutti i tumori in entrambi i sessi). Una patologia che rappresenta il 9% dei tumori giovanili negli uomini (al secondo posto tra le neoplasie più frequenti, dopo il testicolo) e il 7% nelle donne (terza neoplasia più frequente, dopo mammella e tiroide).
Per il melanoma individuato in uno stadio precoce, la chirurgia costituisce il trattamento standard ed è associata a una buona prognosi a lungo termine. A 5 anni dalla diagnosi si registra un tasso di sopravvivenza del 98% nei pazienti in stadio I e del 90% di quelli in stadio II. Diverse le cose per lo stadio III, quando il tumore si estende ai linfonodi vicini (circa il 15% delle nuove diagnosi). In questo caso, infatti la patologia presenta rischi di recidiva elevati.
La mutazione di alcuni geni, come dimostrato da recenti studi, è responsabile della proliferazione incontrollata delle cellule di melanoma. Fra questi il gene Braf, che – mutato – produce una proteina anomala la quale, non funzionando più correttamente, invia un segnale errato alla cellula tumorale che si moltiplica in maniera incontrollata. Per questo nei pazienti ad alto rischio (III stadio), gli esperti raccomandano l’esecuzione del test per determinare la mutazionale del gene Braf attraverso un test di laboratorio, eseguito su un campione di tessuto prelevato tramite biopsia.